sto», ci ha appena detto il Santo Padre Benedetto XVI. Oggi sappiamo che questo non è più possibile per un processo di osmosi naturale che scaturisce dall’ambiente stesso di vita. Oggi occorre dare ragioni, quelle ragioni di vita e di speranza cui fa riferimento il titolo della vostra Assemblea, perché il Vangelo possa esprimere tutto lo splendore della sua credibilità di fronte ad una umanità spesso disorientata e stanca. Sono anche questi tempi di tentazione e di prova, come ci diceva al brano dell’Apocalisse. La nostra forza potrebbe anche essere poca, ma non ci mancherà la certezza che il Signore ci ama e se noi terremo stretto il tesoro della nostra fede egli ci rafforzerà come colonne nel tempi di Dio. Chiedo al Signore che in questi giorni educhi il vostro orecchio ad ascoltare ciò che lo Spirito vorrà dirvi, per rendere più viva la vostra esperienza associativa e più fruttuoso il dono che voi siete per tutta la Chiesa in Italia.
Roma, 22 aprile 2005.
+ Giuseppe Betori
AZIONE CATTOLICA ITALIANAXII Assemblea Nazionale Roma, 22-25 aprile 2005
Omelia alla Celebrazione di apertura
«Metto davanti a te una porta aperta che nessuno può chiudere» (Ap 3,8). L’immagine risveglia nel nostro cuore la memoria dolce e impegnativa dell’appello: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!», con cui il nostro amato Giovanni Paolo II ci invitò a uscire da un cattolicesimo titubante e timoroso per incontrare gli uomini e le donne del nostro tempo, per farci missionari del Vangelo in ogni luogo dell’esistenza e in ogni scenario della storia. Ci chiese di mettere i nostri passi sulle frontiere dell’umano – là dove prendono figura gli affetti, le relazioni, le produzioni, la socialità… –, andando oltre la pura conservazione dell’esistente; un esistente ecclesiale minacciato dalla perdita progressiva di identità, pericolosamente insidiato da quanti vorrebbero una riduzione umanistica del fatto cristiano, ma anche intaccato al proprio interno dal frantumarsi dell’unità tra le ragioni della speranza, travisata in utopia, le certezze della fede, snaturata in ideologia, e lo slancio della carità, svilita in solidarismo.Contro queste derive, il grande Papa che ci ha appena lasciati ci ha indicato una solida alternativa: il ritorno a Cristo, all’incontro con lui, con la sua persona, storicamente viva nell’esperienza che se ne fa nella Chiesa. Nell’omelia di apertura del Conclave, l’attuale Santo Padre Benedetto XVI ci ha detto: «Il Figlio di Dio, il vero uomo: é lui la misura del vero umanesimo»; e ci ha ricordato che solo nell’amicizia con lui si compie il progetto della nostra vita: «Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Grazie Gesù, per la tua amicizia!». E quanto plasticamente ci ha mostrato il brano evangelico, dove il Crocifisso Risorto si mostra ai suoi discepoli e trasforma un gruppo di uomini impauriti, incapaci di uscire dalle porte chiuse della prigione a cui hanno ridotto la loro vita, dalle ristrette vedute di una esistenza timorosa di confrontarsi con l’ambiente all’intorno, in una comunità della gioia – «i discepoli gioirono al vedere il Signore» –, che trasforma l’esperienza della pace che è Cristo nella consapevolezza di un mandato. Nasce qui una indicazione di fondo per un’associazione ecclesiale come l’Azione Cattolica: essere un luogo di esperienza della pace di Cristo, quella che nasce dalla consapevolezza di essere redenti dalla sue mani e dal suo costato e di essere da lui mandati a continuare la missione di riconciliazione che il Padre gli ha affidato. Educare le persone all’attesa dell’incontro, alla gioia del riconoscimento, alla disponibilità all’impegno: sta qui un modello di progetto formativo, che non si limita a trasmettere conoscenze, a educare i comportamenti, a creare occasioni di convivialità, ma va al fondo dell’esperienza cristiana e nella Parola, nei sacramenti e nella vita fraterna rende visibile Cristo stesso. Senza questa basilare esperienza a nulla varrebbero le proposte di impegno apostolico, gli inviti ad essere fermento del Regno nel mondo.
La porta di cui parla il libro dell’Apocalisse non è però direttamente quella del cuore dell’uomo, ma quella della città celeste, cioè del traguardo a cui quel cuore, consapevolmente o meno, tende fin dalla nascita. Tra quel cuore da schiudere e quell’esito ultimo da raggiungere si colloca un altro passaggio, un’altra porta da aprire, quella della evangelizzazione, che svela la povertà di un cuore senza Dio e la ricchezza della buona novella di Cristo, del suo amore – fino alla croce – per l’uomo. La consapevolezza della condizione umana, nella sua tragica ambivalenza segnata dal peccato, come pure la coscienza viva dell’esito escatologico che solo dà senso al tempo e alla storia costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo di un tragitto che è fatto da quella quotidiana testimonianza al Vangelo che è chiamato a dare chi crede in Cristo. Come ci ha ricordato la lettera che il Santo e il Verace scrive alla Chiesa di Filadelfia, su di noi è stato inciso il nome stesso di Dio e quello della sua città celeste, la nuova Gerusalemme: non apparteniamo cioè più a noi stessi, ma la nostra identità è determinata dall’esserci scoperti figli dell’unico Padre del cielo e fratelli radunati dalla maternità di una Chiesa che noi stessi edifichiamo come pietre vive. Questa nuova identità si riassume nel nuovo nome che il Risorto ha svelato per sé e ha comunicato a noi: egli è il Cristo e noi siamo suoi, siamo cristiani. Non si tratta di una identità nascosta: quello che il mistero del battesimo ha segnato nella nostra vita è una luce da far risplendere per gli altri. E una parola da non dimenticare per poterla ridire, annunciare; una identità da non perdere e da confessare. Dice il Vivente risorto alla Chiesa di Filadelfia: «Hai conservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome». Si è cristiani perché la porta che abbiamo aperto nel nostro cuore, per far entrare Cristo, diventa anche il passaggio per far uscire la nostra nuova identità e farla diventare Vangelo per gli altri. «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi», ha detto Gesù ai suoi discepoli. Il mandato missionario vale per loro, come per noi. Così lo viveva san Paolo: «Pregate per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo, per il quale mi trovo in catene: che possa davvero manifestarlo, parlandone come devo» (Col 4,3-4). Gli eventi di questi giorni ci dicono come sempre Dio apra le porte dell’annuncio suscitando turbamento, interrogativi, attese, speranze nel cuore dell’umanità: quanto stupore e quanto riconoscimento abbiamo visto sul volto della gente di fronte alla testimonianza che ha lasciato Giovanni Paolo II e al messaggio di fede che la Chiesa ha saputo trasmettere nella sua morte e nell’accogliere il nuovo Pastore universale Benedetto XVI! La missione non è un di più dell’esistenza cristiana, ma la sua stessa identità: come Cristo è stato tutto per noi, così chi accoglie Cristo deve farsi tutto per gli altri. Ciò che va comunicato, in opere e parole, è il messaggio della pace, quella pace che è Gesù stesso, fondata sul perdono che egli ha raccolto dall’amore del Padre sulla croce, e che si esprime nella riconciliazione dell’uomo con Dio e, in conseguenza, dell’uomo con se stesso e con gli altri. Il contenuto della “buona novella” va attentamente salvaguardato e penetrato con gli occhi della fede. Esso al tempo stesso va tradotto nelle forme più consone ai tempi, con le parole di Paolo che abbiamo sopra ricordato: «parlandone come devo». Il come è legato da una parte alla forza dello Spirito che, come ha ribadito il Vangelo, è la condizione stessa della missione: accogliere lo Spirito e vivere secondo lo Spirito è necessario per la efficacia della missione. Ma il come è anche legato alla capacità di incontrare le condizioni storiche dell’uomo, per far risplendere il Vangelo come risposta alle sue attese. Di qui la stretta connessione tra evangelizzazione e cultura, che non a caso contrassegna la modalità con cui oggi la Chiesa italiana vuole vivere la missione di comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.Qui ritengo che all’Azione Cattolica sia in particolare richiesto di portare quella esperienza che le viene dal poter coniugare la ferialità della vita dei suoi membri – fedeli laici nelle comuni condizioni dell’esistenza familiare, lavorativa, sociale… – e il loro radicamento nella struttura viva della Chiesa – la diocesi prima e poi la parrocchia – che ne esprime il particolare legame con i Pastori. I vescovi italiani sanno di poter contare sull’AC come un luogo in cui le ragioni della ecclesialità e quelle della laicità si incontrano, facendosi strumento di inculturazione del Vangelo per il nostro tempo. «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cri